Un'idea "imprevista" di centro culturale

di Linda Di Pietro
Direttrice Artistica, BASE Milano
editoriale
samesame

Nel nostro mestiere passiamo molto tempo a immaginare il cambiamento.
Nella pratica curatoriale, nella relazione con l artist, quando parliamo di trasformazione e di futuro o di come sia possibile diversificare il pubblico e i nostri programmi allo stesso tempo il cambiamento a livello sistemico e istituzionale rimane un percorso lento e complesso.

Questo spiega perché la scarsa presenza di luoghi culturali veramente accessibili e plurali sia prima di tutto un fallimento dell’immaginazione da parte di quello stesso settore il cui compito è proprio immaginare come potrebbe essere il mondo.

Scegliere di parlare di cambiamento e accessibilità in maniera intersezionale ha un’altissima dose di rischio. Perché come dice Leah Lakshmi Piepzna-Samarasinha “nulla andrà per il verso giusto, non c’è una soluzione unica che andrà bene per tutte le persone”.

È un processo costante e il fallimento è dietro l’angolo, il senso di inadeguatezza, la frustrazione. È difficile anche quando si ha un aiuto, può essere impossibile risolverlo da sol .
Perché l’accesso è troppo spesso solo una questione di conformità, di atteggiamento da checkbox, non si occupa di ciò che è significativo per le persone, ma di cosa è accolto all’interno di un sistema di norme istituito da legislatori di altre epoche.

Questo non cambierà finché non capiamo che non basta includere risolvendo il “come entrare da una porta”. Serve usare un approccio critico verso una società che permette che le persone siano escluse e non entrino dalla porta, a volte neanche ci si avvicinino a quella porta.

Per questo abbiamo scelto di intraprendere un’esperienza collettiva sull’accessibilità di BASE che potesse essere concepita come una pratica culturale processuale per smantellare il mondo e ricostruirlo. Ripensare il nostro fare a partire da un invito, invitare al tavolo il soggetto imprevisto, e cioè le tante inedite soggettività che non sono state pronosticate nella fase ideativa dei luoghi tradizionalmente deputati alla cultura, perchè rappresentanti di comunità ai margini dell’arena pubblica.

Fino a che punto si può ripensare il mondo in modo ampio e sfumato, orientandosi verso uno spazio culturale e una società aperti alla “perturbazione”? Si può impostare un’istituzione in una modalità fragile, imprevedibile e aperta, pronta a rispondere in qualsiasi momento alle urgenze sociali e politiche? Non c’è una risposta univoca a queste domande ma abbiamo individuato una serie di principi e di azioni da cui partire.

Progettare a partire dalla persona “imprevista” ovvero ideare progetti che partano dalle persone e dalle identità mai pronosticate e non come adattamento a posteriori di servizi, spazi e contenuti per specifici gruppi di persone che non erano stati previsti in fase progettuale.

Decidere di trasformare sé stess, prima di trasformare il mondo spingendo per un radicale ripensamento e decanonizzazione della nostra stessa organizzazione attraverso un ciclo di formazione interna che ha visto coinvolto tutto lo staff di BASE e le organizzazioni partner. Prendersi cura delle persone per permettere loro di emanciparsi attraverso la nostra istituzione.

Rispettare il “Nothing about us without us” per non definire azioni politiche senza il diretto coinvolgimento delle persone interessate nei processi decisionali. Esercitarsi a farsi da parte.

Praticare una politica di ascolto e dialogo secondo un approccio di cura, di confronto e di agonismo che non significa solo programmare il tempo per l’ascolto quando l’organizzazione lo ritiene opportuno. Si tratta di un allenamento costante alla permeabilità e all’apprendimento.

Chiediamoci quindi, come ci sollecitano Silvia Bottiroli e Low Kee Hong: “Se prendiamo sul serio la co-creazione e la co-autorialità, come componenti costitutive del nostro modo di vivere e lavorare, quale diventa l’orizzonte del nostro fare? E se, in altre parole, non si trattasse di noi, non del nostro progetto, ma piuttosto delle condizioni che esso fornisce perché qualcosa e altre cose accadano?”

Un’I.D.E.A. di centro culturale” vuole essere questo, non una risposta monolitica, ma un appello all’azione, non tanto per immaginare il modo in cui il mondo potrebbe essere, quanto per esigere lo spazio necessario per fare nuovo mondo assieme.


IN-DIFFERENCE
design, attivismo spaziale, convivialismo

di Linda Di Pietro
Artistic Director
design
editoriale
wewilldesign

«We have  lost  the  pleasure  of  being  together.  Thirty years of  precariousness  and  competition  have destroyed  social  solidarity. Media virtualization has  destroyed  the  empathy  among  bodies, the  pleasure  of  touching each other, and the  pleasure of living in  urban spaces.  We have lost  the  pleasure  of love,  because  too  much  time  is  devoted  to work and  virtual  exchange».

Francesco Bifo Berardi and Geert Lovink. 2011. “A Call to the Army of love and to the Army of Software,” published online by the Institute of Network Cultures, Amsterdam )

WE WILL DESIGN 2024 
si pone all’intersezione tra dinamiche spaziali e culturali come piattaforma per promuovere la convivialità, intesa come un bisogno collettivo basato sulla cooperazione, la cura reciproca e la solidarietà.   

La convivialità diventa uno strumento architettonico eccezionale per favorire dinamiche progettuali inclusive, dove voci diverse si uniscono nella condivisione di conoscenze attive e nel perseguimento dei desideri attraverso l’informalità, il divertimento e lo scambio spontaneo.   
Gli spazi influenzati dalla convivialità tendono ad annullare le differenze razziali, etniche, religiose, di classe e di genere, rendendole ordinarie e neutralizzando le disuguaglianze.   

La negoziazione delle differenze diventa parte naturale dell’incontro e della vita in questi spazi pubblici, che diventano spazi di “visibilità e incontro tra estranei”. Come possiamo definire questi incontri come conviviali? E quali idee di design possono sorgere da tali incontri?   

“We celebrate the spaces informed by conviviality as those where racial, ethnic, religious, class, and gender differences are rendered unremarkable and ordinary. These are spaces where inequalities are neutered.”  

Lemonot - Sabrina Monreale e Lorenzo Perri 

Partendo dal concetto di convivialità di Ivan Illich, come pratica del “vivere insieme” (con-vivere), il convivialismo si è trasformato in un Movimento e Manifesto, sottoscritto nel 2020 da oltre trecento autori provenienti da diverse discipline.  

WE WILL DESIGN cerca di immaginare nuove forme di convivenza e interdipendenza basate su principi come la cooperazione, la democrazia, il dialogo tra culture, la dignità paritaria e la responsabilità ecologica.   
Vogliamo esplorare, come progettist, architett, e cittadin, la capacità di creare diverse forme di relazioni interdipendenti, considerando i nostri comportamenti, gesti, sentimenti e spazialità.   
Useremo la performatività come strumento per riscrivere le condizioni architettoniche della vita quotidiana
Promuoveremo il fantastico e il desiderabile come principi guida.   

Ci impegneremo a creare rituali eccezionali e ordinari, rivelando la loro capacità di dare struttura, significato, gioco e spazialità conviviale alle nostre vite. In occasione della design Week 2024 BASE apre le porte dei suoi spazi alla costruzione di una comunità temporanea di designer, architetti, artisti under30 che vivranno e lavoreranno all’interno degli spazi, trasformati per l’occasione in un laboratorio di “convivialismo” che invita i visitatori a riflettere sulle più innovative pratiche di convivenza, coabitazione e di condivisione presenti al momento in Europa e la loro interrelazione con gli spettri di migrazione, genere, abilità, salute, background culturale.   

Cosa sarebbe trasformare BASE in un luogo di presenza politica, dove designer, artist, student abitano e reinventano lo spazio? 

Mentre le città producono costruzioni futuristiche ed elitarie, sopravvivono visioni utopiche della domesticità e proliferano soluzioni autonome e insediamenti informali, in cui abitare diventa un gesto di resistenza e di affermazione della dignità umana.   
  

Iniziamo ad abitare pensieri e progetti e non solo più spazi e oggetti.
Abitiamo il futuro, abitiamo il turbamento, abitiamo mondi che non esistono, corpi che sono organismi collettivi. 

Linda Di Pietro
DIRETTRICE ARTISTICA DI BASE MILANO


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Nuove istituzioni culturali, spazi accessibili

di Linda Di Pietro
samesame

Quando qualcuno ci chiede di spiegare cosa è BASE troviamo sempre che una sola definizione sia riduttiva, che la sua complessità sia la sua bellezza.
Tendiamo a definirla per antinomia, chiarendo prima quello che non è.
Non è un museo, non è un teatro, non è solo uno spazio aggregativo, non è un coworking tradizionale, non è un locale da ballo. È tutte queste cose insieme e anche molto altro.
Same Same but different, direbbero nel sud est asiatico prendendosi gioco della nostra venerazione del brand.
BASE, non ha bisogno di definizioni. Ognuno gli dia la propria.
Spazio ibrido, meticcio, community hub, presidio locale del secondo millennio, per cui si sa che per fare cultura, per fare territorio, bisogna innanzitutto tornare a fare mondo, assieme.

Questa indefinibilità nella sua sostanza ha fatto sì che negli ultimi anni, sempre di più, si manifestasse in noi la certezza che questo luogo, e non altri, sarebbe stato il luogo perfetto da cui partire per ripensare il concetto stesso di istituzione culturale. E ripensarlo a partire dai corpi invisibilizzati, quelli che solitamente non vediamo nei luoghi di cultura della nostra città; a partire dalle voci che non ascoltiamo, se non quando occupano le classifiche di Spotify; a partire dai nostri bias, dai pregiudizi, dalla discriminazione conscia e inconscia nelle nostre parole.

“Same same, but different” inaugura due anni di lavoro sfidanti, tesi a costruire un’istituzione artistica plurale, attraverso un processo di decanonizzazione, intesa come smantellamento delle strutture gerarchiche che producono i canoni e il riconoscimento delle divergenze da essi, la messa in discussione radicale dei meccanismi di potere e delle modalità normalizzate di produzione e diffusione della conoscenza (la razza, il genere, le condizioni economiche, etc.).

Come scrive Ilda Curti significa “allargare il perimetro della prossimità a chi abita la città ma è assente, laterale – perché non ne condivide il linguaggio o, semplicemente, non ha voce e parola per partecipare: le persone con background migratorio, le individualità in transizione, i giovanissimi. Coloro che oggi, nell’arena urlante delle città impaurite, diventano oggetto di scontro tra la cura e il rancore e vengono privati di soggettività e protagonismo.”

Si tratta di agire in modo profondamente politico, e noi, cosiddetti rigeneratori urbani non possiamo sottrarci.

D’altronde BASE non è una monade, è nella città e la città è nel mondo e le sue mura sono di pelle.

Non possiamo sfuggire a ciò che penetra nei pori.

Se non chiederci come divenire spazio di confine, disponibile alla co-abitazione ed alla trasformazione. Come attivare un dialogo aperto e reale con le soggettività delle comunità̀ e della società̀ ancora marginalizzate?

Per mettere in discussione la natura egoriferita delle istituzioni e renderle più rispondenti al linguaggio ed alla società contemporanea, in costante trasformazione, non possiamo che auspicare la decostruzione, decolonizzazione, hackeraggio e denaturalizzazione delle istituzioni artistiche.

Ci interessa la sollecitazione di Sarah Vahnee durante il forum internazionale The Fantastic Institution, “I desire a feminization, decolonizing and queering of the art institutions”, istituzioni che facciano politica invece di presentare programmi artistici sulla politica, che si prendano cura delle persone che vi lavorano e si impegnino con loro, le sostengano sulla base di un dialogo paritario e si prestino come strumenti.

Strumenti e piattaforme che il pubblico, i partner e i fruitori influenzino la sua struttura, costringendo l’istituzione a essere in un costante e produttivo stato di re-invenzione. Una sorta di responsabilità condivisa con coloro a cui l’istituzione si rivolge.

Un “progettare con” al posto di “organizzare per”.

Abbiamo costruito cattedrali come musei, teatri, festival e week, che nel corso degli anni si sono arrugginite e sclerotizzate. E’ urgente riconsiderare il ruolo dei centri di cultura, come strumenti per facilitare e valorizzare nuovamente la produzione di immaginazione e conoscenza, attraverso nuovi sistemi di alleanza con la società civile, attraverso nuove parole che non siano solo “diverso e uguale”, ma raccontino tutte le sfumature del campo semantico intersezionale.


NEI PROSSIMI ANNI I PROGETTI DI BASE SI SVILUPPERANNO SECONDO 4 LINEE DI VALORE, RACCOLTE NELLA PAROLA IDEA.

IDEA è acronimo di:

Inclusione: creare un ambiente in cui tutti gli individui si sentano accolti, sicuri, rispettati, valorizzati e supportati per consentire la piena partecipazione e il contributo.

Diversità: Tenere in considerazione il fatto che ogni individuo è unico e riconoscerne le peculiarità, tra cui: origini etniche, genere (identità, espressione), orientamento sessuale, provenienza, status socio-economico, religione o convinzioni personali, stato civile, età e disabilità.

Equità: l’identificazione e la rimozione delle barriere, soprattutto economiche, per garantire la piena partecipazione di tutte le persone e di tutti i gruppi.

Accessibilità: si riferisce alla progettazione di prodotti, dispositivi, servizi o ambienti per le persone con disabilità. Un insieme di soluzioni che consentono al maggior numero di persone di partecipare alle attività nel modo più efficace possibile.

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