Nel nostro mestiere passiamo molto tempo a immaginare il cambiamento.
Nella pratica curatoriale, nella relazione con l artist, quando parliamo di trasformazione e di futuro o di come sia possibile diversificare il pubblico e i nostri programmi allo stesso tempo il cambiamento a livello sistemico e istituzionale rimane un percorso lento e complesso.
Questo spiega perché la scarsa presenza di luoghi culturali veramente accessibili e plurali sia prima di tutto un fallimento dell’immaginazione da parte di quello stesso settore il cui compito è proprio immaginare come potrebbe essere il mondo.
Scegliere di parlare di cambiamento e accessibilità in maniera intersezionale ha un’altissima dose di rischio. Perché come dice Leah Lakshmi Piepzna-Samarasinha “nulla andrà per il verso giusto, non c’è una soluzione unica che andrà bene per tutte le persone”.
È un processo costante e il fallimento è dietro l’angolo, il senso di inadeguatezza, la frustrazione. È difficile anche quando si ha un aiuto, può essere impossibile risolverlo da sol .
Perché l’accesso è troppo spesso solo una questione di conformità, di atteggiamento da checkbox, non si occupa di ciò che è significativo per le persone, ma di cosa è accolto all’interno di un sistema di norme istituito da legislatori di altre epoche.
Questo non cambierà finché non capiamo che non basta includere risolvendo il “come entrare da una porta”. Serve usare un approccio critico verso una società che permette che le persone siano escluse e non entrino dalla porta, a volte neanche ci si avvicinino a quella porta.
Per questo abbiamo scelto di intraprendere un’esperienza collettiva sull’accessibilità di BASE che potesse essere concepita come una pratica culturale processuale per smantellare il mondo e ricostruirlo. Ripensare il nostro fare a partire da un invito, invitare al tavolo il soggetto imprevisto, e cioè le tante inedite soggettività che non sono state pronosticate nella fase ideativa dei luoghi tradizionalmente deputati alla cultura, perchè rappresentanti di comunità ai margini dell’arena pubblica.
Fino a che punto si può ripensare il mondo in modo ampio e sfumato, orientandosi verso uno spazio culturale e una società aperti alla “perturbazione”? Si può impostare un’istituzione in una modalità fragile, imprevedibile e aperta, pronta a rispondere in qualsiasi momento alle urgenze sociali e politiche? Non c’è una risposta univoca a queste domande ma abbiamo individuato una serie di principi e di azioni da cui partire.
→ Progettare a partire dalla persona “imprevista” ovvero ideare progetti che partano dalle persone e dalle identità mai pronosticate e non come adattamento a posteriori di servizi, spazi e contenuti per specifici gruppi di persone che non erano stati previsti in fase progettuale.
→ Decidere di trasformare sé stess, prima di trasformare il mondo spingendo per un radicale ripensamento e decanonizzazione della nostra stessa organizzazione attraverso un ciclo di formazione interna che ha visto coinvolto tutto lo staff di BASE e le organizzazioni partner. Prendersi cura delle persone per permettere loro di emanciparsi attraverso la nostra istituzione.
→ Rispettare il “Nothing about us without us” per non definire azioni politiche senza il diretto coinvolgimento delle persone interessate nei processi decisionali. Esercitarsi a farsi da parte.
→ Praticare una politica di ascolto e dialogo secondo un approccio di cura, di confronto e di agonismo che non significa solo programmare il tempo per l’ascolto quando l’organizzazione lo ritiene opportuno. Si tratta di un allenamento costante alla permeabilità e all’apprendimento.
Chiediamoci quindi, come ci sollecitano Silvia Bottiroli e Low Kee Hong: “Se prendiamo sul serio la co-creazione e la co-autorialità, come componenti costitutive del nostro modo di vivere e lavorare, quale diventa l’orizzonte del nostro fare? E se, in altre parole, non si trattasse di noi, non del nostro progetto, ma piuttosto delle condizioni che esso fornisce perché qualcosa e altre cose accadano?”
“Un’I.D.E.A. di centro culturale” vuole essere questo, non una risposta monolitica, ma un appello all’azione, non tanto per immaginare il modo in cui il mondo potrebbe essere, quanto per esigere lo spazio necessario per fare nuovo mondo assieme.
Tag: editoriale
Un'idea "imprevista" di centro culturale
IN-DIFFERENCE
design, attivismo spaziale, convivialismo

«We have lost the pleasure of being together. Thirty years of precariousness and competition have destroyed social solidarity. Media virtualization has destroyed the empathy among bodies, the pleasure of touching each other, and the pleasure of living in urban spaces. We have lost the pleasure of love, because too much time is devoted to work and virtual exchange».
Francesco Bifo Berardi and Geert Lovink. 2011. “A Call to the Army of love and to the Army of Software,” published online by the Institute of Network Cultures, Amsterdam )
WE WILL DESIGN 2024
si pone all’intersezione tra dinamiche spaziali e culturali come piattaforma per promuovere la convivialità, intesa come un bisogno collettivo basato sulla cooperazione, la cura reciproca e la solidarietà.
La convivialità diventa uno strumento architettonico eccezionale per favorire dinamiche progettuali inclusive, dove voci diverse si uniscono nella condivisione di conoscenze attive e nel perseguimento dei desideri attraverso l’informalità, il divertimento e lo scambio spontaneo.
Gli spazi influenzati dalla convivialità tendono ad annullare le differenze razziali, etniche, religiose, di classe e di genere, rendendole ordinarie e neutralizzando le disuguaglianze.
La negoziazione delle differenze diventa parte naturale dell’incontro e della vita in questi spazi pubblici, che diventano spazi di “visibilità e incontro tra estranei”. Come possiamo definire questi incontri come conviviali? E quali idee di design possono sorgere da tali incontri?
“We celebrate the spaces informed by conviviality as those where racial, ethnic, religious, class, and gender differences are rendered unremarkable and ordinary. These are spaces where inequalities are neutered.”
Lemonot - Sabrina Monreale e Lorenzo Perri
Partendo dal concetto di convivialità di Ivan Illich, come pratica del “vivere insieme” (con-vivere), il convivialismo si è trasformato in un Movimento e Manifesto, sottoscritto nel 2020 da oltre trecento autori provenienti da diverse discipline.
WE WILL DESIGN cerca di immaginare nuove forme di convivenza e interdipendenza basate su principi come la cooperazione, la democrazia, il dialogo tra culture, la dignità paritaria e la responsabilità ecologica.
Vogliamo esplorare, come progettist, architett, e cittadin, la capacità di creare diverse forme di relazioni interdipendenti, considerando i nostri comportamenti, gesti, sentimenti e spazialità.
Useremo la performatività come strumento per riscrivere le condizioni architettoniche della vita quotidiana.
Promuoveremo il fantastico e il desiderabile come principi guida.
Ci impegneremo a creare rituali eccezionali e ordinari, rivelando la loro capacità di dare struttura, significato, gioco e spazialità conviviale alle nostre vite. In occasione della design Week 2024 BASE apre le porte dei suoi spazi alla costruzione di una comunità temporanea di designer, architetti, artisti under30 che vivranno e lavoreranno all’interno degli spazi, trasformati per l’occasione in un laboratorio di “convivialismo” che invita i visitatori a riflettere sulle più innovative pratiche di convivenza, coabitazione e di condivisione presenti al momento in Europa e la loro interrelazione con gli spettri di migrazione, genere, abilità, salute, background culturale.
Cosa sarebbe trasformare BASE in un luogo di presenza politica, dove designer, artist, student abitano e reinventano lo spazio?
Mentre le città producono costruzioni futuristiche ed elitarie, sopravvivono visioni utopiche della domesticità e proliferano soluzioni autonome e insediamenti informali, in cui abitare diventa un gesto di resistenza e di affermazione della dignità umana.
Iniziamo ad abitare pensieri e progetti e non solo più spazi e oggetti.
Abitiamo il futuro, abitiamo il turbamento, abitiamo mondi che non esistono, corpi che sono organismi collettivi.
Linda Di Pietro
DIRETTRICE ARTISTICA DI BASE MILANO