Silvia Bottiroli — Pratiche artistiche e sviluppo territoriale

Questo contributo è la rielaborazione dell’intervento di Silvia Bottiroli durante l’assemblea collettiva promossa da BASE DESIRESIDE Residenze Transdisciplinari, pratiche e modelli a confronto.
Una densa giornata di conversazioni, talk, panel e tavoli di lavoro. Il nostro auspicio è di poter dare a questo tipo di attività la continuità che meritano, avviando un percorso collettivo di risemantizzazione dei processi di ricerca artistica.

Un problema centrale delle residenze è quello del rapporto con un territorio specifico come una possibile risorsa per una ricerca artistica, o invece come una richiesta ulteriore che le artiste si trovano a dover accogliere. La differenza fondamentale la fa naturalmente la pratica artistica in questione, ma resta la domanda se, nell’ottica di un guardare alle residenze artistiche come possibile strumento di sviluppo territoriale, non si rischi di orientare le ricerche artistiche verso forme che appunto hanno un impatto più tangibile sul territorio (perché site specific, di spazio pubblico, partecipative, rivolte a comunità specifiche etc etc).  

Come decliniamo questo rapporto tra pratiche artistiche e sviluppo territoriale di fronte a pratiche che non hanno una immediata relazione o impatto con ciò che accade fuori da loro? 

È una domanda che rivolgo in particolare a chi cura residenze e deve quindi assumersi la responsabilità di nutrire la relazione con il proprio contesto, in complicità con le artiste che sostiene e senza posarsi su di loro soltanto. In un momento in cui le residenze sembrano essere uno degli strumenti più diffusi, anche per la loro flessibilità, leggerezza e porosità, del sostegno alla ricerca e creazione artistica, come le stiamo pensando e curando? E per le artiste, quali sono dei criteri che rendono l’invito o la richiesta di mettersi in relazione con un territorio un nutrimento per lo sviluppo della propria ricerca artistica, o invece un limite, un compito ulteriore, un elemento estraneo che crea inciampi nel flusso di lavoro? 

Sollevo queste domande anche alla luce di un dibattito sulle residenze che, almeno nell’ambito delle arti performative, in Italia sembra molto incentrato sull’affermazione di una dicotomia tra residenze di produzione e residenze di ricerca, che mi pare scentrata per come crea una logica oppositiva rispetto a due forme del fare artistico – la ricerca e la produzione – che è artificioso separare in modo netto, e che suggerisce anche due approcci differenti alle modalità possibili di relazione con il fuori della pratica artistica, e quindi anche con il contesto territoriale di cui oggi parliamo. 

Radicalizzando un pochino la domanda precedente, potremmo ripensare alla proposta formulata diversi anni fa da Eleanor Bauer, coreografa statunitense che ha lavorato a lungo in Belgio, quando proponeva che invece che far girare le artiste da una residenza a un’altra, basterebbe far girare delle risorse alle artiste là dove vivono e lavorano. Un ribaltamento di prospettiva teso a suggerire, in forma di provocazione, che forse le residenze servono più alle strutture che le curano e ai loro territori che alle artiste. Sappiamo bene che non è necessariamente così, che per molte artiste poter lavorare in contesti e luoghi differenti è una risorsa imprescindibile al nutrimento di una pratica di ricerca, e al contempo una questione rimane: se pensassimo a una pratica di city residents (era il nome di un programma di Viernulvier a Ghent quando si chiamava ancora Vooruit, una decina di anni fa), cioè artiste sostenute da una istituzione artistica perché residenti nella città o affinché lo diventino in un periodo di qualche anno? In che modo un modello del genere potrebbe complementare quello delle residenze brevi o medie, e anche, quali alleanze e relazioni sono necessarie per una organizzazione artistica affinché quella residenza diventi davvero una residenza nella e della città, oltre le mura materiali e immateriali della realtà che la inizia? Quali equilibri ci sembrano interessanti tra la pratica delle residenze come possibilità per le organizzazioni di ospitare artiste straniere al loro contesto, e per le artiste di visitare contesti diversi dal proprio e lasciarli nutrire il percorso di ricerca – e quella invece di residenzialità a lungo termine e stanziali, forme di intensificazione della condivisione già esistente di uno stesso territorio?

Ancora, esistono forme – alcune anche sperimentate anche da soggetti che sono qui oggi mi pare – di residenze curatoriali: potrebbero essere un modo per lavorare appunto sul rapporto tra pratiche artistiche e sviluppo territoriale,? A partire da esperienze sia dirette – cioè presenti in questa stanza oggi – sia indirette (programmi di cui sappiamo, abbiamo letto, siamo curiose…) potrebbe avere senso immaginare che le forme di residenzialità possano aprirsi anche a figure che operino precisamente sul facilitare relazioni, connessioni, snodi? E in questo caso – come anche in quello di artiste – che cosa comporta il fatto che le curatrici siano normalmente basate in altri territori? O invece, siano curatrici che lavorano in modo indipendente nello stesso contesto?

Una prospettiva ulteriore che vorrei proporre, per aprire la conversazione, riguarda i modi in cui il “territorio” (termine che abbiamo detto abbraccia tanto il contesto ambientale quanto gli individui e le comunità che lo compongono) è coinvolto e ha agentività all’interno delle organizzazioni artistiche a cui ci riferiamo: che cosa accadrebbe ad esempio se la scelta delle figure, artistiche, curatoriali o di ricerca, invitate in residenza fosse condivisa a qualche livello con soggetti che operano sul territorio al di fuori dell’organizzazione artistica, coinvolti in un processo curatoriale di definizione di direzioni di lavoro e di scelta delle figure con cui condurle? In altri termini, se ci interessa mettere in relazione pratiche artistiche e sviluppo territoriale, quale complessità siamo in grado di mettere in gioco nella lettura del territorio e nel suo coinvolgimento? Dove vediamo buone pratiche, esempi che ispirano, tentativi che varrebbe la pena osservare con attenzione e magari provare a riprodurre? Che cosa abbiamo già tentato e quali riflessioni possiamo condividere a partire da questi esperimenti?

Silvia Bottiroli

  


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