Estratti da “Culture Class: Art, Creativity, Urbanism, Part I” di Martha Rosler, giugno 2011

Per tutti gli anni Sessanta, mentre gli ex imperi metropolitani escogitavano, lottavano e manovravano con forza per assicurarsi modi alternativi per mantenere l’accesso a basso costo alle risorse produttive e alle materie prime nel mondo post-coloniale, le democrazie occidentali, a causa delle agitazioni tra l giovani e le minoranze incentrate sulle crescenti richieste di agency politica, sono state diagnosticate dalle élite politiche come ingovernabili. 

In alcune città, mentre l adult della classe media e alcun giovani “hippie” se ne andavano, gruppi di altre persone, tra cui student e famiglie della classe operaia, hanno preso parte a iniziative abitative per le persone povere che comprendevano la “sweat equity” (in cui il comune concede diritti di proprietà a coloro che formano collettivi per riabilitare le proprietà decadute dei condomini, in genere quelle in cui vivono) o lo “squatting”. Nelle città che non sono riuscite, come New York e Londra, a trasformarsi in centri di concentrazione del capitale attraverso la finanza, le assicurazioni e il settore immobiliare, il movimento di squatter ha avuto una lunga coda ed è ancora presente in molte città europee.

Negli Stati Uniti, il movimento di insediamento urbano (homesteading), attuato principalmente attraverso l’acquisto individuale di case in degrado, è stato rapidamente riconosciuto come un modo nuovo e più benigno di colonizzare i quartieri e di allontanare la classe povera. Quest nuov rappresentant della classe media sono stati spesso definiti dagli interessi immobiliari e dai loro collaboratori giornalistici – per non parlare di un entusiasta sindaco Ed Koch – “pionier urban”, come se i vecchi quartieri potessero essere interpretati secondo il modello del Far West. Questi sviluppi sembravano organici agli individui che vi si trasferivano; tuttavia, quando le comunità minacciate hanno iniziato a resistere, il processo di cambiamento ha acquisito abbastanza rapidamente un nome: gentrificazione.

Nelle città più grandi, alcuni individui colonizzatori facevano parte del mondo artistico, letterario, del teatro e della danza. Molti di loro vivevano in vecchie proprietà; ma gli artisti non volevano tanto dei semplici appartamenti quanto luoghi in cui lavorare e vivere, e gli spazi ideali erano fabbriche dismesse o loft manifatturieri. A New York, mentre poet, attor, ballerin e scrittor si trasferivano in vecchi quartieri residenziali della classe operaia come il Lower East Side, molti artist presero casa nei vicini quartieri di fabbriche manifatturiere. L artist avevano iniziato a vivere nei loft almeno dagli anni Cinquanta e, sebbene la città strizzasse loro l’occhio, considerava la loro situazione come temporanea e illegale. Ma gli artisti che abitano nei loft continuano ad insistere per ottenere il riconoscimento e la protezione della città, una concessione sempre più possibile con l’avanzare degli anni Sessanta.

Un’attenta osservatrice di questo processo è stata la sociologa urbana di New York City, Sharon Zukin. Nel suo libro Loft Living: Culture and Capital in Urban Change, pubblicato nel 1982, Zukin scrive del ruolo della comunità artistica nel rendere la “vita da loft” accettabile, persino desiderabile. L’autrice si concentra sulla trasformazione, a partire dalla metà degli anni Sessanta, del quartiere di ghisa di New York in un “quartiere di artist”, che alla fine fu chiamato Soho. In questo libro straordinario, Zukin espone una teoria del cambiamento urbano in cui la comunità artistica e l’intero settore dell’arte visiva – in particolare le gallerie commerciali, gli spazi gestiti da artisti e i musei – sono il motore principale della riorganizzazione della città post-industriale e della rinegoziazione del patrimonio immobiliare a vantaggio delle élite.

è una cosa seria?

iscriviti alla newsletter di BASE: troverai tutte le novità su ciò che facciamo, ciò che ci piace e dove vogliamo stare.