Objects make the world: an interview with smarin.

di Redazione

Da oltre vent’anni, lo studio di design francese smarin esplora il modo in cui gli oggetti plasmano non solo i nostri spazi, ma anche il nostro modo di vivere e pensare. Dai cuscini che si trasformano in paesaggi agli strumenti che ridefiniscono il nostro modo di respirare, la loro pratica ha sempre sfumato il confine tra estetica e politica, proponendo gesti, materiali e rituali in grado di aprire nuovi immaginari.

A luglio 2025, smarin ha svolto una residenza a BASE per dare inizio al primo capitolo di una collaborazione che proseguirà nel 2026 con un nuovo ambizioso progetto. Abbiamo intervistato Stéphanie Marin e abbiamo parlato di comfort, lentezza e gesti manuali come strumenti radicali in un’epoca di crisi ecologica e culturale.

B: smarin esiste da più di vent’anni. Cosa è rimasto immutato nel vostro approccio e cosa, invece, è radicalmente cambiato nel tempo?

s: Dalla sua creazione, smarin si fonda su una convinzione semplice: l’oggetto fa il mondo. Ogni oggetto, ogni gesto di progettazione contribuisce a modellare non solo i nostri spazi, ma anche i nostri modi di vivere e di pensare. Questa domanda fondamentale non è mai cambiata: rimane il nucleo del nostro lavoro.
Ciò che invece è profondamente cambiato è la risonanza di queste domande con la nostra epoca. Per molti anni le abbiamo esplorate quasi in resistenza, controcorrente. Oggi sono riconosciute come essenziali: il modo in cui produciamo, i materiali che mobilitiamo, il modo in cui abitiamo il mondo.
La complessità di queste problematiche si è enormemente ampliata e con essa la possibilità di elaborare risposte molteplici e transdisciplinari. Questo rende il nostro lavoro più esigente, ma anche più appassionante, perché incontra ormai un’eco molto più ampia.


B: I vostri progetti sembrano nascere più da domande che da forme. Quali sono le domande che guidano oggi il vostro lavoro?

s: Constatiamo che le grandi questioni che attraversano il presente — l’emergenza climatica, le polarizzazioni socioculturali, le crisi urbane — hanno in comune un substrato di tensioni che emergono attorno a velocità e ritmi. A partire da questa osservazione ci siamo avvicinati a discipline come la cronobiologia, la microsociologia, l’ecologia industriale e l’urbanistica metabolica. Tutte rivelano quanto le nostre condizioni di vita dipendano dall’articolazione di temporalità molteplici: cicli biologici, ritmi sociali, flussi urbani, velocità tecnologiche.
In questa traiettoria ci prepariamo ad avviare un ciclo di ricerca che chiamiamo Rhythmic Studies, ovvero lo studio delle questioni interritmiche. L’obiettivo è esplorare ciò che accade quando queste velocità si incrociano: tensioni, attriti, ma anche potenzialità — sincronizzazioni parziali, invenzioni collettive, emergere di nuovi immaginari. Come team, concepiamo anche il nostro lavoro comune come una forma in sé: l’invenzione di un sistema basato su parametri multipli. L’equilibrio di un’impresa pone una serie di questioni economiche e pragmatiche, complesse, che non vogliamo mettere da parte a favore di un’ambizione puramente artistica. Riteniamo che il design offra proprio un terreno concreto per sperimentare tali problematiche di scala produttiva, sviluppare intuizioni e formulare ipotesi per nuovi quadri di ricerca.


B: In un mondo sempre più digitale, scegliete materiali naturali, gesti lenti, pratiche manuali. Si tratta di una scelta estetica, politica — o di entrambe? In che modo questo si intreccia con la nostra epoca, segnata dalla crisi ecologica, dalla polarizzazione culturale e dall’urgenza di nuovi immaginari?

s: Estetica e politica sono sfere distinte in teoria, ma nella realtà appartengono a un’unica dimensione. Il nostro approccio è empirico, fondato sulla semplicità del gesto e della ricerca: consiste nel proporre situazioni concrete che permettano di sperimentare altre abitudini, altri gesti, altre temporalità. Lavorando con materiali naturali, con forme semplici e protocolli pratici, cerchiamo di innescare piccole trasformazioni nel quotidiano.
Questi spostamenti minimi possono condurre a mutazioni più profonde, capaci di alimentare nuovi immaginari collettivi e aprire la strada a situazioni più desiderabili. In questo senso, ogni progetto è al tempo stesso un’esplorazione estetica e una proposta politica, indissolubilmente legate alla nostra epoca.


B: BASE è uno spazio di relazione tra pubblico, cultura e produzione artistica. Cosa vi attrae nell’idea di attivare qui un progetto? Come immaginate che possa dialogare con il vostro lavoro? Potete darci un piccolo indizio su ciò che accadrà nel 2026?

s: BASE è un contesto aperto e fertile, in cui la cultura si vive come un processo collettivo. È al tempo stesso stimolante ed esigente, perché il pubblico e i partner qui partecipano realmente a una trasformazione comune — all’interno di Milano, città che occupa un posto particolare nella diffusione delle culture in Europa.
Abbiamo iniziato a esplorare il contesto locale, dialogando con istituzioni, ricercatori, studenti. Immaginiamo di proporre protocolli semplici, sperimentazioni collettive che permettano di testare, in tempo reale, nuove forme di relazione con il mondo. Nel 2026 presenteremo una mostra in collaborazione con l’Institut français, il Politecnico di Milano, BASE e la Triennale. Avrà la forma di un laboratorio dedicato all’analisi delle questioni interritmiche — una ricerca che consideriamo particolarmente fertile nel campo del design. Sarà un invito a praticare, sperimentare e condividere intorno a questo tema.

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