Quando qualcuno ci chiede di spiegare cosa è BASE troviamo sempre che una sola definizione sia riduttiva, che la sua complessità sia la sua bellezza.
Tendiamo a definirla per antinomia, chiarendo prima quello che non è.
Non è un museo, non è un teatro, non è solo uno spazio aggregativo, non è un coworking tradizionale, non è un locale da ballo. È tutte queste cose insieme e anche molto altro.
Same Same but different, direbbero nel sud est asiatico prendendosi gioco della nostra venerazione del brand.
BASE, non ha bisogno di definizioni. Ognuno gli dia la propria.
Spazio ibrido, meticcio, community hub, presidio locale del secondo millennio, per cui si sa che per fare cultura, per fare territorio, bisogna innanzitutto tornare a fare mondo, assieme.
Questa indefinibilità nella sua sostanza ha fatto sì che negli ultimi anni, sempre di più, si manifestasse in noi la certezza che questo luogo, e non altri, sarebbe stato il luogo perfetto da cui partire per ripensare il concetto stesso di istituzione culturale. E ripensarlo a partire dai corpi invisibilizzati, quelli che solitamente non vediamo nei luoghi di cultura della nostra città; a partire dalle voci che non ascoltiamo, se non quando occupano le classifiche di Spotify; a partire dai nostri bias, dai pregiudizi, dalla discriminazione conscia e inconscia nelle nostre parole.
“Same same, but different” inaugura due anni di lavoro sfidanti, tesi a costruire un’istituzione artistica plurale, attraverso un processo di decanonizzazione, intesa come smantellamento delle strutture gerarchiche che producono i canoni e il riconoscimento delle divergenze da essi, la messa in discussione radicale dei meccanismi di potere e delle modalità normalizzate di produzione e diffusione della conoscenza (la razza, il genere, le condizioni economiche, etc.).
Come scrive Ilda Curti significa “allargare il perimetro della prossimità a chi abita la città ma è assente, laterale – perché non ne condivide il linguaggio o, semplicemente, non ha voce e parola per partecipare: le persone con background migratorio, le individualità in transizione, i giovanissimi. Coloro che oggi, nell’arena urlante delle città impaurite, diventano oggetto di scontro tra la cura e il rancore e vengono privati di soggettività e protagonismo.”
Si tratta di agire in modo profondamente politico, e noi, cosiddetti rigeneratori urbani non possiamo sottrarci.
D’altronde BASE non è una monade, è nella città e la città è nel mondo e le sue mura sono di pelle.
Non possiamo sfuggire a ciò che penetra nei pori.
Se non chiederci come divenire spazio di confine, disponibile alla co-abitazione ed alla trasformazione. Come attivare un dialogo aperto e reale con le soggettività delle comunità̀ e della società̀ ancora marginalizzate?
Per mettere in discussione la natura egoriferita delle istituzioni e renderle più rispondenti al linguaggio ed alla società contemporanea, in costante trasformazione, non possiamo che auspicare la decostruzione, decolonizzazione, hackeraggio e denaturalizzazione delle istituzioni artistiche.
Ci interessa la sollecitazione di Sarah Vahnee durante il forum internazionale The Fantastic Institution, “I desire a feminization, decolonizing and queering of the art institutions”, istituzioni che facciano politica invece di presentare programmi artistici sulla politica, che si prendano cura delle persone che vi lavorano e si impegnino con loro, le sostengano sulla base di un dialogo paritario e si prestino come strumenti.
Strumenti e piattaforme che il pubblico, i partner e i fruitori influenzino la sua struttura, costringendo l’istituzione a essere in un costante e produttivo stato di re-invenzione. Una sorta di responsabilità condivisa con coloro a cui l’istituzione si rivolge.
Un “progettare con” al posto di “organizzare per”.
Abbiamo costruito cattedrali come musei, teatri, festival e week, che nel corso degli anni si sono arrugginite e sclerotizzate. E’ urgente riconsiderare il ruolo dei centri di cultura, come strumenti per facilitare e valorizzare nuovamente la produzione di immaginazione e conoscenza, attraverso nuovi sistemi di alleanza con la società civile, attraverso nuove parole che non siano solo “diverso e uguale”, ma raccontino tutte le sfumature del campo semantico intersezionale.
NEI PROSSIMI ANNI I PROGETTI DI BASE SI SVILUPPERANNO SECONDO 4 LINEE DI VALORE, RACCOLTE NELLA PAROLA IDEA.
IDEA è acronimo di:
Inclusione: creare un ambiente in cui tutti gli individui si sentano accolti, sicuri, rispettati, valorizzati e supportati per consentire la piena partecipazione e il contributo.
Diversità: Tenere in considerazione il fatto che ogni individuo è unico e riconoscerne le peculiarità, tra cui: origini etniche, genere (identità, espressione), orientamento sessuale, provenienza, status socio-economico, religione o convinzioni personali, stato civile, età e disabilità.
Equità: l’identificazione e la rimozione delle barriere, soprattutto economiche, per garantire la piena partecipazione di tutte le persone e di tutti i gruppi.
Accessibilità: si riferisce alla progettazione di prodotti, dispositivi, servizi o ambienti per le persone con disabilità. Un insieme di soluzioni che consentono al maggior numero di persone di partecipare alle attività nel modo più efficace possibile.