In un mondo dove i legami vengono sistematicamente spezzati – da guerre, migrazioni forzate, politiche di esclusione e sfruttamento – fare kin vuole essere un gesto sovversivo. Significa opporsi alle logiche di isolamento, alla cultura del nemico, alla costruzione dell’“altro” come minaccia. Significa riattivare possibilità di cura, reciprocità, alleanza, contro la logica della separazione e della gerarchia.
Stare nel dolore
Non vogliamo parlare di kinship in modo ingenuo. Il dolore, la rabbia, la perdita, la violenza strutturale non vanno bypassati. Making kin non è un sogno armonico. È piuttosto – come direbbe Donna Haraway – una pratica situata, “tentacolare”, che non esclude il conflitto, ma lo attraversa. Si può fare kin anche attraverso frizioni, limiti, fratture.
Kin come alleanze tra vulnerabilità
In tempi di disumanizzazione, fare kin può significare creare alleanze tra coloro che sono stati disumanizzati: tra umani e non umani, tra corpi razzializzati, migranti, queer, poveri, estinti o estinguendi. Significa costruire alleanze che non si fondano sulla somiglianza o sull’identità, ma sulla co-esistenza nel rischio e nella vulnerabilità condivisa.
Bayo Akomolafe ci ricorda che “il mondo non è qualcosa da risolvere, ma qualcosa con cui danzare”. La sua filosofia ci spinge a riconoscere la vulnerabilità come spazio di connessione e trasformazione, dove le ferite possono diventare punti di incontro e non solo di separazione.
Riconoscere i kin che già ci sono
Anche in mezzo al disastro, legami esistono. La domanda non è solo come fare kin, ma con chi siamo già in parentela senza saperlo? Chi stiamo già toccando, attraversando? Fare kin è anche un atto di riconoscimento. Un gesto che interrompe il senso di solitudine e marginalità.
Making Kin come immaginazione radicale
In un’epoca di nuove colonizzazioni (economiche, estrattive, digitali), fare kin può significare anche immaginare mondi diversi, forme di abitare, di essere insieme, di generare valore non fondate sulla crescita, sul profitto, sul dominio. È un gesto speculativo, poetico, utopico nel senso più concreto: inventare pratiche vivibili per tempi invivibili.
Accettare che non tutti vogliano “fare kin”
“fare alleanze” non può diventare un imperativo morale. Va lasciato lo spazio anche alla fuga, alla protezione, al silenzio. Fare kin non può essere un obbligo. È sempre una scelta situata, a volte anche dolorosa.
Il ruolo del festival
Le arti performative hanno una capacità unica di rendere visibile e tangibile la relazione, di creare spazi dove il legame non è solo rappresentato, ma agito, abitato, incarnato. In tempi di separazione e disumanizzazione, il corpo in scena – vulnerabile, affettivo, presente – può diventare un territorio di alleanza, un luogo dove immaginare e testare nuove forme di convivenza. La performance può mettere in discussione le gerarchie tra spettatore e performer, tra umano e non umano, tra sé e altro, aprendo fessure in cui si fanno strada forme inedite di kinship.
Attraverso pratiche somatiche, coreografie relazionali, dispositivi immersivi o azioni site-specific, le arti performative diventano laboratori di co-presenza, dove si può stare nel conflitto senza risolverlo, restare nella complessità senza semplificarla. Possono essere strumenti per rendere visibile l’invisibile, per ascoltare ciò che è stato messo a tacere, per costruire comunità provvisorie ma significative.
In questo senso, le arti performative non rappresentano semplicemente il cambiamento: lo provocano, lo sperimentano, lo allenano. Diventano spazi in cui fare kin è possibile anche solo per un istante – e a volte basta quell’istante per cambiare una traiettoria.