Designer e docente di Social Design e pratiche relazionali alla NABA e DOMUS ACADEMY. Collezionista seriale di oggetti. Dopo gli studi tra Milano, Istanbul e New York, Sara Ricciardi spazia con disinvoltura tra materiali, forme, luoghi e persone. In BASE porta il suo kit di meraviglie tra rami recisi, matti viandanti e festoni.

foto ROARstudio
GRANITI
Per portarvi un pochino nel mio mondo, inizio con questi pezzi di pura materia: dei graniti con su sciolto del vetro. Vengono da una delle prime residenze di design: non avevo una commissione precisa quindi mi sono presa il tempo per sperimentare, senza nessun obiettivo dichiarato. Ho iniziato a lavorare con un’artigiana del vetro, Chiara Valentini, e abbiamo iniziato a farci trasportare dalle interazioni di vari elementi. Lei faceva le fusioni con il vetro e io cercavo in giro oggetti da agglomerare. Insieme abbiamo osservato come le lastre di vetro, con il calore, si accasciano sulle pietre. Provando e riprovando, ho notato che la presenza ostinata dell’aria tra i due materiali, invece di essere un “difetto” era un invito a metterci un fiore.
Per me è importante approcciare al design lasciandosi la possibilità di fare, scoprire, sbagliare, sorprendersi e capire poi come andare avanti e dare un senso. Avere fiducia nel fatto che ad ogni modo si arriva sempre da qualche parte. Spesso collaboro con aziende che mi chiedono ancor prima di esserci incontrati: “Sara, inviaci pure dei disegni in scala per valutare la fattibilità” – E la mia risposta é sempre: “Ma in realtà io non ho nessun disegno, necessito di venire lì, esplorarvi e così immaginiamo insieme cosa si può fare, che narrativa sviluppare e cosa ci suggeriscono i vostri materiali”.
TAROCCHI
La creatività è un percorso, un viaggio in cui non hai la possibilità di programmare neanche l’orario di partenza. Altrimenti, uagliù, che noia! Bisogna perdersi e così vedere cosa succede. E il mio secondo oggetto parla anche di questo. Ho portato dei tarocchi, nello specifico due carte. Io da liceale non sapevo cosa fosse il design e men che meno i tarocchi. Tra le varie pratiche che, dopo i 5 anni di design del prodotto, hanno segnato il mio percorso c’è una residenza a FABRICA di Treviso. Un posto bellissimo, un centro di ricerca pieno di giovani creativi. Insomma, vado lì due settimane, faccio tutti i miei esperimenti e poi loro mi dicono: “Guarda cara, sei brava, ma sei troppo naïf per noi”. Ma come? Ci avevo messo tutto il mio impegno e entusiasmo, eppure, non essendo conforme a una precisa estetica, il mio percorso veniva interrotto. Quindi – un po’ con la coda tra le gambe, pensando “ommiodiochefaccio”- tornai a casa per riflettere su cosa significasse questo “essere naïf”. Quando crollano le tue convinzioni è il momento perfetto per incontri stimolanti. In questo percorso di esplorazione della mia identità incontrai la corsa e la scrittura di Jodorowsky, gli atti psicomagici, i tarocchi per esplorare meglio me stessa.
Ah, Sono naïf? E allora io mi ci tuffo dentro, completamente.
Volevo capire chi ero e come mi vedevano gli altri. La prima carta che pescai fu Il Matto. Il Matto non è una persona strana ma indica chi non ha una direzione, chi sta esplorando, chi è in pieno movimento. E per me è stato un momento molto importante, avevo capito che non volevo riconoscermi in nessuno stereotipo e desideravo una mia identità indipendente. Quattro anni dopo, dopo molto lavoro, la carta che ho ripescato è stata L’Arcano Maggiore 21: Il Mondo. Una carta che rappresenta la realizzazione, il compimento, la conclusione positiva di un ciclo di ricerca.
COMPOSIZIONE IKEBANA
Ognuno di noi deve crearsi degli esercizi, dei trucchi, degli amuleti per superare i momenti di crisi. Il mio esercizio anti-crisi lo trovai all’interno di una esposizione presso Maison d’Object a Parigi, dove un designer mi disse che lui praticava l’ikebana. Io non sapevo neanche cosa fosse, però il senso di appagamento che mi trasmettevano le sue parole mi invogliò a provare. Ero nella fase carta Matto, per capirci. Cercai su Google “ikebana Milano” e trovai almeno 15 centri che praticavano questa arte della composizione floreale e scelsi di istinto. Immaginate la mia prima lezione: l’insegnante mi mette cinquanta rami davanti e mi dice: “ora tu devi comporre le tre tensioni dell’ikebana. Recidi, recidi pure”.
Potare è un atto di coraggio. Vuol dire sapere dove sfoltire, definire il superfluo e cercare di creare una tensione, un equilibrio tra pieni e vuoti. E non ti viene al primo colpo ma dopo numerosissimi tentativi ed esercitazioni. Devi lasciarti tempo e respiro.
Dai fiori ho spostato il focus su di me; io sono “tanta” e allora dovevo riuscire un po’ ad eliminare il troppo per ricevermi meglio. E quindi mi auto-assegnai questo esercizio. Soprattutto oggi che abbiamo tantissime informazioni dall’esterno, tantissime richieste, tanti input, è molto importante riuscire a selezionare e concentrarsi sulla propria scelta. Dirsi: “Va bene, scelgo questo. Domani cambio, ma ora ho scelto questo”.
Ho tanti studenti che mettono molto entusiasmo in quello che fanno, tutti meravigliosi ma rischiano di non riuscire a calibrarsi. Immaginate uno splendido piatto di pasta in cui avete messo troppo sale, non lo mangerete volentieri. Bisogna imparare a dosare le parti di sé da inserire in un progetto.
GONG, DANZA BUTOH
Un altro esercizio che invece mi ha aiutata nella scoperta del corpo è la danza Butoh. Questa danza ti insegna a stare, ad aspettare, ad ascoltare. Tra i primi esercizi per praticarla, ti chiedono di arrivare all’altro capo della sala – poniamo che siano 6 metri – e li devi percorrere in un’ora, camminando.
Lo stare è una fase molto importante nel mio lavoro, una forma di fiducia in ciò che l’ascolto del corpo può suggerirti. Un’idea non è soltanto un parto mentale, le cose nascono da una reciprocità tra mente e corpo. Il Butoh mi ha fatto riscoprire la necessità di autocelebrare l’empatia, l’osmosifisica, lo sguardo che include l’altro. Non si è mai da soli – neanche nel proprio lavoro – in base a come tu ti muovi, ti relazioni e crei un flusso energetico.
Il Butoh ti autorizza anche ad esplorare quella parte di te che per gli altri è complessa da gestire. Perché essere mediocri nei sentimenti? Mi vedete floreale, gioiosa, ma, in realtà, se riesci a raggiungere picchi molto alti di gioia é perché raggiungi anche picchi molto bassi di tristezza.
Bisogna cercare la sinuosità, grafici di paraboliche emotive, non vi è l’uno senza l’altro.
SCIMMIA
Questa scimmia è un giocattolo per imparare le tabelline. È un oggetto che io amo tanto, mi ricorda anche di quando da piccola dovevo imparare le poesie a memoria. Io proprio non ci riuscivo, non capivo perché dovessi stare lì a leggere e memorizzare. Mio cugino, che era un bravo rapper, me le fece rappare e ora mi ricordo tutta La spigolatrice di Sapri: “Eran trecento, eran giovani e forti, e son morti…”
Lo stimolo all’apprendere attraverso il divertimento è cresciuto insieme a me. Quando, il giorno dopo la mia laurea, mi chiesero di fare la docente di Social Design io dissi: “Cos’è il Social Design? E soprattutto: “Siete pazzi! io mi sono laureata ieri, non ho proprio la capacità di farlo”. Però una mia docente, Vered Zaykovsky, che fu per me un grande mentore, mi disse: “Sara tu lo fai inconsapevolmente e ti diverti. Se ti diverti tu si divertiranno pure gli studenti”.
Con questa scimmietta mi piace sottolineare che bisogna alimentare un fuoco sacro, un entusiasmo che non è innato ma che va ricercato continuamente, bisogna mettersi in discussione, senza mai dimenticare che bisogna divertirsi nel farlo, capendo quali sono le modalità di legarci a qualcosa. Io mi lego attraverso il divertimento. Anche quando faccio gli Excel devo cercare di divertirmi in una qualche maniera. Allora ho iniziato a giocare con i colori delle celle, ho fatto dei pattern incredibili. Quando le cose non funzionano uso dei colori terribili, come alcuni marroni delle celle del recupero dei miei crediti!
ABITARE POP
Ritorniamo a “Sara, vuoi insegnare Social Design?” Che cos’è il Design Relazionale? Si tratta di co-progettare, far sí che il progetto non nasca da un’esigenza personale, ma riuscire a raccordare le necessità più ampie di una determinata comunità. “Abitare Pop” è un prodotto editoriale ma l’obiettivo di MM, il Comune di Milano e di NABA è quello di entrare in contatto con gli abitanti delle case popolari di alcuni quartieri periferici. Durante il corso, andiamo in avanscoperta, spostiamo la classe nei condomìni, nelle loro portinerie, cercando di capire chi ci abita, quali sono le esigenze, come l’architettura plasma le relazioni umane. I contenuti della rivista nascono dalla osservazione e rielaborazione di questi processi. La cosa che trovo più stimolante è che bisogna sempre inventare come entrare in contatto con gli altri, e come ricevere le loro storie. Ad esempio la bicicletta raccogli-storie in cui potevi sfogarti e mandare a stendere qualcuno, oppure chiedere, “cos’è il nero o il bianco per te?” e scoprire che le persone riescono a condividere momenti bui e luminosi con grande intensità tramite un rapporto con le cromie.
Raccomando agli studenti un approccio rispettoso, bisogna coniugare gentilezza e creatività, essere aperti a ricevere, e dare importanza ai contatti, uno ad uno. Se non ci guardiamo negli occhi non possiamo parlare di design relazionale. Una volta assorbito il contesto si possono creare dei progetti specifici, veri, utili ai contatti umani, in cui si sentano tutti progettisti che riqualificano un ambiente, una piazza, un parco, dei servizi.
Tra l’altro, il bello è che questa rivista viene distribuita solo ed esclusivamente nei condòmini delle case popolari. Questo per iniziare a creare nuovi modi di parlarsi e di sognare prospettive diverse in un contesto così complesso. Se sogni qualcosa riesci ad attivarti e hai lo stimolo di metterti in gioco. Se tu non sogni, non ti metti in gioco e quindi non ti metti in relazione con gli altri.
Se resti privo di fede, privo di voglia, di desiderio, ti annerisci come persona.
FESTONE
Faccio sempre questo sogno in cui ci sono due persone che da un abbraccio iniziano ad allontanarsi frontalmente l’una dall’altra e aprono tra i loro petti un lungo festone colorato. Dall’incontro di due persone e dalla loro connessione di carta colorata che tengono insieme tesa nell’aria, si genere un Tempio della Festa. Ci vuole sempre un altro individuo perché si crei questo spazio, questo luogo. Il concetto di generare la festa mi torna spesso in mente, una specifica sensazione di gioia tra le persone. Non so, magari prima o poi, questo festone diventeràil brainstorming per fare qualcosa, un oggetto, una coreografia, chissà.
Però durante il mio percorso ho imparato anche che la generazione della festa, della gioia, nasce innanzitutto con e verso se stessi.
Amarsi è molto importante. Io non vorrei fare questa citazione però, capitemi, ho fatto dieci anni di scuola dalle suore Orsoline. Non capivo proprio bene quel comandamento che diceva “ama il tuo prossimo come te stesso”. Poi nel percorso dal Matto al Mondo, è nata una consapevolezza: voler nutrire amore verso il sé, riuscire a dialogare e stare bene con sé stessi, tanto da riuscire poi a generare una profonda e veritiera festa stando in relazione con gli altri.
Per concludere, qual è l’oggetto con cui vorresti fare la rivoluzione?
Quando penso alle rivoluzioni sono sempre ispirata da chi è riuscito a farle in maniera delicata, in maniera gentile. Mi piace molto la propulsività e non appartiene al mio essere l’aggressione e il distruggere per ricreare. Se dovessi scegliere un oggetto per fare una rivoluzione direi un libro di poesie. La poesia, a differenza della filosofia che richiede degli strumenti più strettamente intellettuali, risveglia l’emozione, il sentire, l’affezione.
L’atto poetico è il non plus ultra della rivoluzione.