Lorenzo de Rita oltre ad essere il Direttore di The Soon Institute – un centro di ricerca e sviluppo dove si sperimentano soluzioni per la società che verrà – fa anche molte altre cose: insegna Ingegneria delle Idee al Politecnico di Torino; pubblica libri d’artista (o “libri difficili” come li definisce lui stesso); si occupa di botanica parallela e di castelli in aria (il suo prossimo progetto è aprire una ferramenta che vende solo utensili per l’edilizia fantastica).
Il suo kit era composto da cinque scatole, ciascuna contenente una “cosa”. Cinque oggetti piccoli, per niente pretenziosi, quasi insignificanti, ma allo stesso tempo dal valore inestimabile per lui e rappresentativi di un episodio fondamentale della sua biografia e in qualche modo rivelatori della sua personalità.

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Una cosa simile / Una barra spaziatrice
Come primo oggetto ho portato questo: la barra spaziatrice della macchina per scrivere di mia madre. Non credo che esista un oggetto che possa descrivere meglio il mio carattere più intimo. Mi identifico molto in questo tasto che non batte una lettera sul foglio, ma crea uno spazio vuoto tra due lettere.Il suo essere non una cosa, ma un intervallo tra due cose.
Fin da ragazzino ho sempre avuto una forte idiosincrasia per le cose chiare, definite, inequivocabili. Avevo un debole invece per le cose ambigue, “storte”, indeterminate, quelle che non si capivano al volo. E soprattutto per le cose ambivalenti che di significati, a cercarli, potevano contenerne molti e tutti diversi. Col tempo ho capito che quell’attrazione era dovuta al fatto che quel tipo di cose mi assomigliavano. Ero come loro: sempre indeciso tra questo e quello, affaccendato in mille cose e tanti me. Non ero mai un solo Lorenzo, ma un Lorenzo tra due Lorenzo.
Quel “tra”, quell’essere in mezzo, quel non saper essere una cosa sola, è un tratto ricorrente nella mia vita. Sono il quinto di otto figli. In mezzo, un posto in cui mi trovo a mio agio. Non ho mai avuto la smania di primeggiare, né la paura di essere l’ultimo. Quando avevo dodici anni mi chiesero chi avrei voluto essere da grande e senza che la risposta passasse per i miei neuroni dissi: “un vescovo e se non si può un falegname”. E in parte lo sono anche diventato un vescovo e un falegname. Nel senso che ho sviluppato piano piano un lato spirituale che pensa alle cose e uno pratico che fa le cose. Non a caso oggi mi occupo di ricerca e sviluppo, cioè penso a delle cose che poi sviluppo in prototipi concreti.
Da vent’anni vivo ad Amsterdam, una città che non dovrebbe esistere. Era una pozzanghera gigante da cui quei geniacci degli Olandesi hanno tirato fuori un paese intero. Con tutti quei ponti, per andare da una parte all’altra dei canali, non poteva che essere la città di adozione di chi si identifica con una barra spaziatrice.

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Una cosa non facile / Una serratura
Questa è la serraturadella porta della cantina della casa dove sono cresciuto.
A casa mia – tra sorelle, fratelli e genitori – eravamo dieci, un numero che raddoppiava considerando parenti e amici. La casa era bellissima, ma davvero molto piccola. Nemmeno cento metri quadrati. Ci si divertiva un sacco, ma non c’era modo di isolarsi, di avere un momento e un posto per pensare ai fatti propri. Così avevo preso l’abitudine di andare in cantina, ci passavo pomeriggi interi. Piano piano l’ho svuotata del casino che c’era e l’ho trasformata nel mio studio privato, privatissimo, off-limits per tutti. È in quella cantina che ho cominciato a investigare su chi fossi e a viaggiare dentro me stesso allo scoperto di quello che ancora non ero. Ho cominciato a scrivere poesie (orrende) sperimentare e fare pastrocchi con colori e materiali e soprattutto a costruire macchine assurde, ispirate dalle macchine inutili di Bruno Munari.
Quella cantina è stata il ventre, in cui è nato e si è sviluppato il Lorenzo che sono oggi. È un posto che mi ha protetto, cresciuto e insegnato molto; e per questo voglio bene a quella cantina e le sarò grato per tutta la vita. Soprattutto per una cosa: la sua porta. Vi spiego. La cantina era in un seminterrato, un posto umidissimo, tanto umido che il legno della porta si gonfiava e sgonfiava a seconda del microclima malsano di quel mondo quasi sottoterra. Ovviamente la porta non dava preavvisi sui suoi rigonfiamenti e sgonfiamenti. E se non era il legno della porta, era la serratura difettosa che faceva girare a vuoto la chiave a darmi problemi. Morale: mi capitava spesso di rimanere bloccato all’interno e per ore non c’era verso di uscire. Le pensavo tutte su come aprire quella cavolo di porta, me le inventavo di ogni. La odiavo quella porta, si è presa dei calci… Ma poi ho capito, molto più tardi, che invece avrei dovuto ringraziarla la porta e non malmenarla.
L’ho capito dopo aver letto una frase di Ludwig Wittgenstein. Diceva più o meno così: “Un uomo è prigioniero in una stanza se la porta non è sbarrata e si apre dall’interno, e se a lui non viene in mente che anziché’ spingere bisogna tirare…”
Ecco diciamo che la porta di quella cantina mi ha insegnato a farmi “venire in mente di tirare”, la passione per la ricerca di soluzioni, a non arrendersi facilmente al primo ostacolo, a forzarmi di pensare in modo laterale.
I miei primi castelli in aria hanno le fondamenta poggiate in quella cantina.

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Una cosa che si capisce dopo /Una madonnina fosforescente
Questa piccola madonnina fosforescente mi è stata regalata da Madre Carla, la madre superiora della mia scuola elementare. La mia classe quel giorno avrebbe fatto la prima comunione, così fece trovare sul banco di ognuno di noi questa madonnina. Con una raccomandazione, per usare un eufemismo: “dovete promettere di tenerla per tutta la vita, non perdetela mai…”. Non so i miei compagni, ma quella frase mi terrorizzò. Tornato a casa l’ho messa subito in una scatola e nascosta in un posto sicuro. Ogni tanto andavo a vedere che fosse ancora lì. È ancora lì…
Credo che sia l’unica promessa che ho mantenuto nella mia vita. Il perché ancora non mi è chiaro, ma quello che mi è chiaro è che quella statuetta è sempre stata con me, non solo nella scatola, ma anche nella mia testa, nel mio modo di essere. Piano piano mi sono accorto che come quella statuetta, anche la mia mente è fosforescente. Poco tempo fa ho scritto un piccolo saggio chiamato “il pensiero fosforescente”.
Un pensiero che pensa in modo più naturale di quello “incandescente” utilizzato dal marketing, che pretende tutto e subito, con le sue illuminazioni artificiali che abbagliano magari, ma non illuminano niente. La fosforescenza richiede tempo. Prima c’è la fase di assorbimento di immagazzinamento di energia, e solo dopo molto tempo e solo quando arriva il buio fitto e si comincia a disperare di trovare una soluzione, la soluzione si rivela dentro di noi con quella luce tenue e magica.
Nel mio corso di Ingegneria delle Idee che insegno al Politecnico di Torino, faccio fare diversi esercizi di “pensiero fosforescente” ai miei studenti. Uno di questi è scrivere un “Curriculum Futurae Vitae”. Un curriculum che va nella direzione opposta da quello tradizionale. E cioè invece di partire dal presente e raccontare quello che si è fatto nel passato, parte anch’esso dal presente, ma poi va verso il futuro raccontando quello che si vorrebbe fare. È un modo di immaginarsi un possibile se stesso. I risultati e le reazioni degli studenti a questo esercizio sono meravigliose. C’è chi ha pianto dall’emozione o per la paura di scoprire di volere essere qualcun altro da chi aveva sempre pensato di essere; chi si è esaltato per la felicità di aver scoperto finalmente cosa voleva fare nella vita, chi si è inventato una vita che non avrebbe mai sperato di vivere.
Quando nasciamo sappiamo già chi siamo. Ma a volte non abbiamo la pazienza di aspettare che chi siamo realmente si riveli dentro di noi.Purtroppo non tutti hanno una madre superiore come Madre Carla e non hanno mai ricevuto in regalo la fosforescenza.

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Una cosa un po’ delicata /Una spilla da balia
Per circa quindici anni ho lavorato in dipartimenti creativi di agenzie di pubblicità. In quel mondo, in cui non mi sono mai sentito a mio agio, c’ero entrato giovanissimo e per tutto il tempo in cui l’ho frequentato non facevo che pensare continuamente a una sola cosa: come uscirne. Non mi piaceva quasi niente di quel mondo, e paradossalmente meno mi piaceva più mi veniva bene, e quindi anche più difficile uscirne. Ho scoperto sulla mia pelle che quando non ti piace qualcosa tendi a cercare di non farla e se proprio la devi fare cerchi perlomeno di farla diversamente. Ecco, il mio successo in pubblicità, paradossalmente, è dovuto proprio al mio odio per la pubblicità. Il fatto che non mi piacesse mi ha costretto a pensare altri modi di farla e a pensare in modo originale. Un po’ come quando mi trovavo a che fare con la porta della mia cantina.
Ma, come per la porta, sento un debito di riconoscenza per la pubblicità. Mi ha fatto viaggiare, guadagnare soldi, e soprattutto conoscere un sacco di persone interessanti.
Il regista Spike Jonze è sicuramente una di queste. Uno dei pochi con cui ho avuto un rapporto molto più profondo di quelli che solitamente si ha con un collega di lavoro. Se non un amico, è sicuramente una persona cui sono molto legato.
Un po’ di anni fa Spike fece un film che s’intitolava LEI. Non so se ve lo ricordate. Il film si svolge in un futuro non lontano, in cui la vita della gente è regolata da dispositivi e sistemi operativi basati sull’intelligenza artificiale. Il protagonista Theodore (Joaquim Phoenix) affascinato da una pubblicità che vede per strada, si compra uno di questi dispositivi vocali tascabili che si adattano alle esigenze dell’utente. Il dispositivo ha una voce femminile, una certa Samantha, cioè LEI. Il film racconta la loro storia, la loro relazione.
Una delle cose più belle seconde me di quel film è all’apparenza una cosa insignificante: la spilla da balia che Theodore mette sulla tasca del suo giaccone per permettere alla videocamera del dispositivo di Samantha, di non affondare nella tasca e quindi di vedere la città durante le passeggiate di Theodore.
La mia sensazione è che quella spilla rappresenta una cosa che sta scomparendo dalle nostre relazioni, dalle nostre idee, dalle nostre vite: la sensibilità.
Ecco, allora un giorno ho chiamato il mio amico KK, il set designer di Spike Jonze, e gli ho chiesto se mi potesse mandare una delle spille utilizzate sul set. L’ho messa anch’o sulla tasca del mio giaccone, non per far vedere il mondo a un dispositivo dotato di intelligenza artificiale, ma per ricordare a me a chi me lo chiede di ricordarsi questa cosa meravigliosa e rara che è la sensibilità.

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Una cosa dell’altro mondo /Due parole belle
Sono sempre stato affascinato da chi colleziona cose. Non tanto dalle loro collezioni, ma proprio da loro, i collezionisti. Gente stranissima, se ci pensate. Io ci ho provato a collezionare cose – monete straniere, tappi di bottiglie, carte intestate di alberghi – ma non ho la mentalità del collezionista. Cominciavo, ma poi mi fermavo prima che riuscissero a diventare qualcosa di interessante che valesse la pena proseguire. Me ne sono rimaste solo due collezioni: una che si chiama “parole che mi piacciono”e un’altra di “abbraccidati e ricevuti”.
Della mia collezione di parole che mi piacciono, ne ho portate due: “deuteroscopia” e “iperuranio”. Deuteroscopia, altrimenti detta seconda vista. Una specie di seconda occhiata alle cose. Una facoltà che si sta atrofizzando nella nostra società. Non diamo più seconde occhiate, non ne abbiamo il tempo, c’è così tanto da vedere. E così finiamo per non vedere niente o vedere solo quello che le cose sono e non quello che potrebbero essere. O, ed è ancora più grave, vediamo solo le cose che si possono vedere. Non diamo abbastanza attenzione alle cose invisibili.
L’altra parola è Iperuranio. È un luogo non fisico ma metafisico, spirituale, posto al di là della volta celeste, e dunque oltre il cielo. Secondo Platone era lì che si trovano sia le idee ideali, sia le nostre anime prima che nasciamo. Compito delle anime è quello di contemplare le idee che – a seconda del tempo e della profondità di quella contemplazione – diventeranno una volta nel mondo terreno persone belle o persone brute.

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Un’ultima cosa /Un secondo
Da parecchi anni ho preso l’abitudine di fare un regalo alla mia famiglia e ai miei amici in occasione dell’anno nuovo. Un anno era questo: un cartoncino con su scritto “un secondo”. Insieme al cartoncino nella busta c’era anche un foglio con delle istruzioni per l’uso. C’era scritto qualcosa come: prendete questo secondo e tagliatelo in due parti. Avete ora ottenuto due secondi. Tagliateli a loro volta. E poi ancora, e ancora. Fino a quando non otterrete un secondo che dura per sempre. Regalatelo a qualcuno.
E questo era l’ultimo secondo di questa chiacchierata.

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