Guido Scarabottolo, disegnatore e grafico. Ha collaborato con i maggiori editori italiani, le principali agenzie di pubblicità e la RAI. Dal 1991 collabora con gallerie e musei italiani e stranieri, portando avanti una sua ricerca come artista e usando materiali poveri come lamiera di ferro, fusione d’alluminio, pietra trovata, legno, che spesso organizza in installazioni, anche in grandi spazi.
Il suo kit inizia dentro una valigia di cartone. Un omaggio ai sui genitori, che dal Veneto e dalla Toscana si sono incontrati a Sesto San Giovanni.

Foto di Marina Alessi
L’aeroplano, il contesto
Ha più o meno la mia età. Ẻ di legno verniciato, l’ha fatto mio zio che faceva il falegname in una fabbrica di aerei e dopo la guerra ha continuato in proprio. Con lui ho imparato a conoscere il legno. Da ragazzo ero il suo apprendista, l’addetto alla raddrizzatura dei chiodi usati.
Da quelle vacanze estive passate in falegnameria ho fatto mia l’arte del riuso dei materiali.

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La cerbottana, il far da sé
Da bambini eravamo abituati a cavarcela giocando con cose che trovavamo per strada. Questa era una delle nostre armi, opportunamente attrezzata con le mollette rubate nei cortili, cartone ondulato, elastici fatti con le camere d’aria bucate delle biciclette e la carta dei quaderni di scuola per fare i bussolotti. Un design popolare – apparentemente anonimo – ma pronto a trasformarsi con impugnature fantasiose e scolpite a mano.
Questo per dire che la mia formazione è basata sull’arrangiarsi, senza sprecare nulla. Il fatto di doversela cavare entra un po’ anche nelle scelte estetiche: il mio modo di disegnare è nato dall’economia di gestione. A volte non serve comprare le cose, si può partire da ciò che è già a disposizione.

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Il teschio, il mistero
Questo me l’ha regalato mio padre, non sapeva da dove venisse. Un aspetto che è entrato molto nella mia formazione era il non capire cosa fossero le cose, non riuscire a ricostruirne la storia. Il mistero è diventato per me un obiettivo, uno degli elementi della mia poetica di illustratore: riuscire a costruire delle immagini che non si spiegano fino in fondo, e che lasciano aperti dei dubbi o delle possibilità di lettura.
Avrei potuto portare una cartolina della Zingara Addormentata di Rousseau. L’opera contiene molto mistero: non riuscivo a capire se fosse un uomo o una donna, poi c’è il liuto, e le chiavi del liuto sembrano quasi una costellazione; dietro, un leone sullo sfondo del mare. Non capivo niente di quel disegno lì. Ho sempre sperato di riuscire a fare nella vita un disegno affascinante di cui non si capisse niente.

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Un legno da balene, la reticenza
Ho passato intere estati costretto a stare al mare con signore che si abbronzavano 8 ore al giorno.
Allora camminavo lungo la spiaggia e cercavo questi affari qui. Immaginavo storie pazzesche e intagliavo capodogli in onore di Moby Dick. Bastava una linea, pochissimi gesti, per svelare la balena. Ultimamente li porto a casa così: non finiti, staminali. Anche questo è un elemento della poetica che cerco di seguire: lasciare delle strade aperte.
L’indeterminatezza per me non è una cosa negativa. Ẻ importante che i disegni siano aperti allo sguardo di tutti, e che tutti possano trovarci qualcosa dentro, anche se non hanno letto Proust o Kafka – meglio Kafka comunque. Bisogna imparare a lavorare con il banale perché è una chiave di accesso. Insomma, i disegni sono per me come dei gialli, lascio degli indizi ma non il finale.

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E infine, una boule dell’acqua.
La reticenza, il mistero, l’indeterminatezza. Il fatto di non finire le cose, il non dirle fino in fondo ma lasciarle scoprire al tuo ascoltatore lo sosteneva già Teofrasto – che peraltro il significato del suo nome è che parla da Dio. Ci ho messo una vita per arrivare dove sono, per poi scoprire che le mie sono tutte scoperte dell’acqua calda.
Io di acque calde ne ho scoperte in formato oceanico. La storia è questa: dobbiamo imparare a muoverci in un mare di acqua calda. L’importante è che ce la scaldiamo da soli – imparando piano piano – e non andiamo a comprarla già scaldata.
E un po’ di autoironia, anche quella non guasta mai.

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Hai un rito per esorcizzare la pagina bianca?
Una cosa che aiuta moltissimo è non finire il disegno la sera, per non ripartire la mattina con la pagina bianca. Anche avere un archivio di esperimenti scartati su cui tornare, non sai mai se una forma o un disegno non sarà perfetto per un lavoro successivo.
Oppure, leggere il brief che si deve illustrare prima di andare a dormire. Nel dormiveglia del mattino dopo arrivano le idee.
Ai giovani disegnatori suggerisco due cose: di non trascurare l’autoproduzione e di aggiungere in ogni lavoro un pochino di più di quanto richiesto. Divertitevi e imparate a superarvi.