Annamaria Testa si muove tra comunicazione, pubblicità, docenze e pubblicazioni. Il tutto unito da un’esplorazione continua di che cos’è la creatività. Indagine che atterra nel suo blog Nuovoeutile. Tra le mille scritture che ha praticato e pratica, ci sono gli articoli per Internazionale e i testi di ParoleOstili.
Nel suo kit di mirabilia gioca con l’intangibilità della parola, per ripercorrere snodi e rituali della sua professione.

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Lettera22
“Ho cominciato a lavorare nel ‘74, e scrivevo con questa. L’ho estratta dall’armadio e poi dalla custodia dov’era rimasta chiusa dal ‘91, anno in cui per scrivere ho cominciato a usare un piccolo Macintosh.
È pesantissima.
Mi ero del tutto dimenticata di averci attaccato dietro in piccolo salvagente, e della frase di Christopher Logue incollata accanto alla tastiera: “Andate oltre / – Potremmo cadere / Andate oltre / – è troppo in alto. / Andate oltre! / Andarono, lui spinse, e volarono”.
A vent’anni bisogna credere che puoi andare oltre. Che puoi sempre scrivere una riga più precisa, più intensa, più attenta, più pertinente, più memorabile, più limpida e più breve. Una riga che riesca a toccare qualcuno che sta in un altrove che tu non riesci nemmeno a immaginare. Eppure, succede che tu hai scritto una roba, e che quella è arrivata, tutta da sola, fino a lì.
Battere tasti e scrivere testi con questo attrezzo è bestiale, anche in termini di baccano, ma l’idea resta sempre la stessa: scrivere delle cose che abbiano un senso. Queste macchie bianche non sono cacche di piccione, ma segni di bianchetto, perché se battendo a macchina sbagli, sbianchetti, e se risbagli o cambi idea ri-sbianchetti.
Se sei uno che ricerca minuziosamente la parola migliore, alla fine i fogli sono così spessi che fanno fatica a infilarsi sul rullo. E il bianchetto va dappertutto.
Con questo reperto ho scritto il mio primo libro, “La parola immaginata”. È sorprendente che un libro scritto negli anni Ottanta – prima ancora di internet e dei social network – sia ancora studiato oggi. La cosa che ho capito è che le regole di base restano sempre le stesse. Oggi si va in cerca di trucchi per arrivare prima, per avere successo, per cavarsela, ignorando le regole di base. L’idea è che “se conosco un trucco non è importante applicare le regole”. Non è vero: le regole sono tutto. E aiutano a scrivere decentemente qualsiasi cosa.
Noi individui comunichiamo condividendo un linguaggio. Ma quel linguaggio per significati e senso è molto simile ma non identico per tutti, e non è univoco. Restano delle zone di opacità, di ambiguità, delle aree che permettono di fare humor, di fare poesia, o di non capirsi.
Comunichiamo tra individui che interpretano la comunicazione in maniera molto più emozionale che razionale, che leggono i contesti molto prima dei testi, o che leggono i testi alla luce dei contesti. Di fronte a un testo cerchiamo di ricavare un senso, guardiamo il significato di relazione, guardiamo le emozioni che ci trasmette, a partire dai connotati e dalla sfumatura emozionale delle singole parole. Se, scrivendo, ci dimentichiamo di quanto è fluida e multiforme la materia linguistica che stiamo usando, non arriviamo da nessuna parte.

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Tè aromatico e cioccolato fondente
“Queste due ciotole contengono tè aromatico e due quadrati di cioccolato fondente. Io scrivo sempre di pomeriggio e di sera. Di pomeriggio è tè, di notte è cioccolato. Scrivo lentamente, rileggo tanto, mi faccio un sacco di domande, cerco le fonti e le elenco, sempre.
Scrivere è come cucinare i carciofi: prima devi tagliare le spine. Poi devi togliere le foglie grosse e poi quelle piccoline. Devi arrivare al cuore, e poi farlo a pezzi, e devi sbucciare il gambo, che è buonissimo ma se non lo sbucci è duro e immangiabile e spinoso.
Insomma, ci vuole un sacco di tempo. Ai miei assistenti ho sempre chiesto se avessero riletto i testi che mi portavano. E la risposta spesso era “beh, sì, l’ho riletto” Già, ma quante volte hai riletto? «Una… ».
Ma come, una rilettura sola? Se rileggi sul serio, cambi, aggiusti, migliori, semplifichi dieci, venti volte. E la cosa magnifica è che alla fine il testo è ripulito da ogni traccia di fatica.
Lavorare al computer permette di cambiare idea, di cancellare, di rifare, di aggiungere, di togliere, di cambiare i termini e di levigare una frase fin quando non ha un buon ritmo. Cioè fino a quando la voce interiore, che legge le parole mentre gli occhi stanno scorrendo le righe, ha un buon andamento: le frasi si chiudono giuste. Non ci sono cacofonie. Non ci sono ripetizioni. Le lunghezze sono bilanciate e l’intero testo è piacevole, perfino se parla di cose sgradevoli, o complicate.
Chi mi legge ogni settimana su Internazionale, sappia che l’articolo che sta leggendo di lunedì è stato di norma spedito la domenica notte intorno all’1.30. E di notte, appunto, siamo sul cioccolato fondente. Che è anche un modo per coccolarsi perché uno, mentre scrive la domenica notte, finisce sempre per chiedersi « che diavolo sto facendo a quest’ora? » L’altra domanda notturna è: « Avrò scritto una stupidata, o sarà interessante? ».
Sono quarant’anni che scrivo ma, tutte le volte che invio un pezzo, mi domando se per caso ho scritto una cavolata. Forse è proprio questo che mi aiuta a non scriverne troppe, di cavolate.

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I quotidiani cartacei
“Sempre a proposito di routine giornaliera: la lettura dei quotidiani la mattina, facendo colazione, è fondamentale. Quando mio figlio ne ne ruba uno (di solito quello che mi appresto ad aprire io) e legge le notizie su carta e non sul telefonino, sono felice.
Se oggi molti fanno fatica a gestire la quantità, la valanga, la tormenta, lo tsunami di notizie – uso intenzionalmente una serie di metafore consumate – che ci arrivano addosso, è anche perché le notizie arrivano tutte scompaginate. Sui social media non c’è cronologia, non c’è gerarchia, non ci sono pesi, non ci sono fonti. Su Twitter o su Facebook tutto ha lo stesso rilievo e la stessa apparenza: fake/non fake, autorevole o non autorevole, in apparenza è la stessa cosa.
La pagina del quotidiano è uno spazio finito, che ospita alcune notizie e non altre, che le mette in gerarchia, che le mette in relazione, che le mette in sequenza, in modo giusto o sbagliato, non importa, è un ordine – che io da lettrice posso contestare o condividere – ma è comunque un ordine che si oppone al disordine.
Certo che non si può ignorare Internet, ma, almeno nel mio mondo, la mattina si leggono i quotidiani. L’idea di fondo è questa: essere permeabili nei confronti del disordine – perché se sei impermeabile al disordine non capisci che cosa ti succede intorno – ma mantenere, anzi, presidiare un minimo di ordine.

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Un sasso a forma di cuore
“Il quarto oggetto viene dalla mia collezione di sassi a forma di cuore.
Tutto comincia tanti anni fa: sono su una spiaggia greca di ciottoli, affascinante e scomoda come sono scomode e affascinanti le spiagge di ciottoli. Cerco di leggere, mi rigiro, mi rialzo tutta piena di bozzi. A un certo punto mi trovo tra le mani un perfetto sasso a forma di cuore: bianco, simmetrico, incantevole. Mi ricordo di aver letto qualche tempo prima un, peraltro modesto, racconto su una tizia che colleziona sassi a forma di cuore. E allora faccio un giro in questa spiaggia (del resto, chi riesce più a sdraiarsi?) e raccolgo altri 2, 3 sassi a forma di cuore.
In altri tempi e su altre spiagge la cosa continua. Del resto, c’è gente che ha un occhio speciale per trovare i quadrifogli. Io vado in una spiaggia o lungo una strada e dico « toh, un sasso a forma di cuore ».
Passano diversi anni. Sono con una carissima amica, Elena, e con mio figlio piccolino, a Santo Domingo. Cerco di schiodare i due – l’amica che vuole leggere e il figlio che vuole giocare – per fare una passeggiata. Mi seguono di malavoglia, e io cerco di motivarli coinvolgendoli nella ricerca di sassi a cuore. Immaginatevi la scena: la spiaggia bianca, il mare azzurro, le palme, uno scenario da cartolina, un bambino infuriato, un’amica che che mi dice «Annamaria, e dai con questi sassi ». E allora rispondo « Elena, la ricerca del sasso a cuore è attività nobile e interessante, senza contare che Cuori di pietra potrebbe essere il titolo di una raccolta di racconti ».
Lei si blocca coi piedi nell’acqua, mi guarda e dice « Facciamola! ».
In sostanza, Cuore di pietra diventa davvero un libro che coinvolge venti autrici, giornaliste e scrittrici italiane e il cui ricavato va ad una onlus che lotta contro l’infibulazione. A quella prima raccolta di racconti ne seguono negli anni altre quattro (L’ultima è uscita pochi mesi fa, si intitola Mariti ed è proprio graziosa). Il ricavato viene sempre devoluto a sostegno di una causa che riguarda le donne. Il ricavato di quest’ultima raccolta va a una piccola associazione che combatte i matrimoni precoci.
Il tema di questa storia è “la casualità”. Se una bambina indiana in un paesino remoto potrà evitare di diventare una sposa bambina, e studierà e avrà una vita migliore, è anche perchè io trent’anni prima, girando per una spiaggia, ho trovato un sasso a cuore che poi è diventato una raccolta di racconti, che poi è diventato un gruppo di amiche, che stanno sostenendo una onlus nella zona di Varanasi dove le bambine imparano a parlare inglese, a cucire, a usare il computer.
L’esortazione è semplice: valorizziamo ciò che succede per caso.
Quando i ragazzi mi chiedono come si costruisce un percorso di carriera, la mia risposta è sempre la stessa: c’è una dose di casualità, e nessun percorso è lineare. Si tendono dei fili, ma il senso della narrazione si capisce dopo. L’invito è questo: accogliere l’imprevisto, tenere gli occhi aperti, essere disponibili, essere curiosi. Essere vivi, insomma, e dire dei sì invece che dei no.

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Le chiavi della valigia
“Arriviamo all’ultimo oggetto. Tengo le chiavi del trolley e quelle della valigia nel portachiavi, insieme a quelle di casa. Questo capita un po’ perché viaggio spesso. E un po’ perché l’idea di viaggiare mi appartiene molto: viaggi piccoli, viaggi grandi, viaggi per lavoro, viaggi per piacere, viaggi per scoprire e per spirito di avventura. Viaggi da sola, viaggi con amici, viaggi con mio figlio. Secondo me il mondo è diventato così piccolo che è un peccato non viaggiarlo. E se non lo viaggiamo adesso, diventerà in un futuro prossimo così minuscolo che sarà tutto uguale, e allora viaggiare diventerà irrilevante.
Consegno idealmente queste chiavi ai giovani professionisti, come se fossero un amuleto: siate aperti e andatevene in giro. Le due cose stanno insieme. Più sei aperto, meno hai paura che qualcosa possa ferirti. Meno hai paura, più risorse hai. Più risorse hai, più sei flessibile. Più sei flessibile, più sei creativo. Più sei creativo, più hai voglia di andare in giro e di essere aperto.
Oggi, che frase incolleresti sulla tua macchina da scrivere?
« Vediamo che succede adesso »