Estratti dal testo "Contro la violenza bianca, la casa come unico rifugio".

Originally published on "Domani" in March, 2024

di Mackda Ghebremariam Tesfau and Marie Moise

(…) Lo spazio della casa è stato a lungo analizzato dal femminismo bianco occidentale come il luogo primario di segregazione delle donne, confinate al lavoro domestico, ridotte al ruolo di madri e mogli. È stato considerato lo spazio privato per eccellenza, all’interno del quale ciò che accade non deve essere considerato di dominio pubblico.

Sostenendo che “il privato è politico”, il femminismo ha rotto i lucchetti della casa e ha denunciato lo spazio domestico come la principale fonte di violenza patriarcale, che poteva agire indisturbata a causa della sua classificazione come questione personale.

È sulla base di questo ordine morale che le esperienze delle donne all’interno delle mura domestiche sono state a lungo cancellate dalle analisi dei sistemi di dominio. Ma di quali case stiamo parlando? Di quali donne? Da una prospettiva femminista antirazzista, resta fondamentale affermare che il personale è politico, ma ridurre lo spazio domestico a un terreno di violenza e sfruttamento significa restringere lo sguardo all’esperienza dei corpi bianchi ed elevarla a legge universale.

In una società razzista, le mura di casa sono il perimetro dell’unico luogo sicuro, l’unico spazio in cui i corpi esposti alla violenza razziale sfuggono al principio che struttura la gerarchia dell’umanità e che distingue tra le vite che hanno valore e quelle che, considerate inferiori, sono esposte a una morte prematura. Questa è la condizione di interi gruppi sociali e popoli che in cinque secoli di colonialismo si sono visti storicamente privati della terra chiamata “casa”: sradicati, deportati come schiavi, costretti a migrare e a cercare rifugio, sepolti sotto le macerie di bombardamenti che, anche mentre scriviamo, ridefiniscono il concetto di genocidio e di pulizia etnica sotto il nome di una guerra difensiva contro gli “animali umani”. (…)

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